Intervista a Luigi Berlinguer

Intervista realizzata in occasione del Convegno nazionale Modelli e strategie di prevenzione e contrasto alla dispersione scolastica, Milano 11 novembre 2018, da Katia Branduardi. 

Cosa può cambiare nella scuola? 

La proiezione sociale delle professioni va cambiando. Il lavoro è stato posto a fondamento della nostra Costituzione, secondo me oggi ciò che deve fondare la nostra collettività è l’intreccio tra sapere e lavoro. Noi dobbiamo affermare, quindi, che il comparto scolastico è determinante per la struttura del Paese. La rilevanza della scuola oggi non si sente, invece la formazione generale è determinante per l’andamento di un Paese. Dobbiamo cercare un’interlocuzione con la politica affinché la struttura, il finanziamento e in generale il valore politica conferito al mondo dell’istruzione cambino. La condizione per cui una scuola di tutti e per tutti abbia un minima di efficacia è la qualità. Non è tuttavia il sistema tradizionale della promozione e della bocciatura che conferisce qualità. Non propongo qui di promuovere tutti: la scuola deve essere severa e seria; però non possiamo avere una scuola che si libera degli studenti su cui fallisce. L’esistenza di una generalizzazione va accompagnata alla qualità. La dispersione è un effetto negativo di una scuola che non ha saputo rinnovarsi nella sua struttura, la patologia della dispersione quindi è insita nel sistema ereditato da quando la scuola non era una scuola per tutti. 

In concreto? 

È possibile riaffermare per esempio che l’arte è cultura. Nel nostro paese sono state escluse le discipline artistiche sebbene fossero capaci di aprire socialmente a scuola e di coltivare l’adesione di nuovi iscritti che in una scuola soltanto logocentrica non si trovavano. Una scuola esclusivamente logocentrica infatti è una causa della dispersione. Perché l’essere umano partecipa del sapere se aderisce con tutto l’impianto cerebrale, con tutto il suo essere: un essere umano sapiente deve saper parlare e cantare, saper leggere e suonare, perché altrimenti manca di una parte essenziale della sua formazione culturale. Dobbiamo abbandonare una logica della scuola basata sui cognitivismo esasperato. 

Ripropongo tuttavia una tematica: non dobbiarno adottare una politica assistenziale nella scuola. Le persone come me, che si credono progressiste, hanno corne primo impulso quello di avere a cuore i più deboli, ma la scuola non è solo per i deboli è per tutti ed è solo trasformando il debole in non debole che la scuola compirà il suo dovere. 

Il cambiamento deve essere cornplessivo per contrastare la dispersione. Nella scuola oltre a leggere, a scrivere e a studiare si deve poter conversare, finora noi abbiamo avuto una scuola dove i ragazzi, i docenti non conversano, dove non si attua un confronto di opinioni, unico modo vero di validare la conoscenza. L’apprendimento, infatti, si attua prima studiando e poi esprimendo sé stessi in un confronto, ma la scuola non educa alla discussione e questa è un’altra delle vecchiezze. Ampliare il momento del dialogo e del confronto può aiutare a recuperare situazioni difficili e a coinvolgere molte sensibilità. La scuola non può ridursi ad una serie di lezioni di discipline non comunicanti tra loro che quindi non portano alla ricomposizione unitaria del sapere. 

Qualcuno potrebbe obiettare: “manca il tempo, non ci sono le risorse”, Cosa risponderebbe a queste valutazioni? 

Risponderei proponendo una scuola aperta tutto il giorno, tutto l’anno e tutta la vita. La scuola deve durare fino al pomeriggio avanzato; potrà essere volontaria, coattiva, troveremo il modo, ma dovrebbe essere una scuola dove la “distensio temporis” passa consentire l’inizio dell’assimilazione di ciò che viene prospettato conoscitivamente e ciò può avvenire solo affiancando lo studio alla conversazione, al confronto. Inoltre dovrà essere aperta tutta la vita; noi siamo un paese in cui ci sono due cicli nell’esistenza: l’età dove si studia soltanto e l’età dove si lavora soltanto. La scuola dovrebbe invece diventare capace di articolare il sapere, proiettarlo nelle professioni, e così concretizzarlo; se la scuola si presenterà come uno strumento efficace non solo cognitivamente, ma anche professionalmente, allora sarà possibile coinvolgere il terzo settore. 

Il progetto Oltre i Confini va nella direzione di un profondo cambiamento sistemico della scuola ed è per questo che l’idea mi ha sedotto. Noi abbiamo bisogno di una rivoluzione scolastica, molti aspetti sono cambiati ma non l’impianto generale. L’unica scuola che ha avuto un po’ di successo è la primaria, dove la partizione disciplinare non esiste poiché nella persona stessa del docente avviene la riunificazione; anche negli altri gradi di istruzione dobbiamo ridurre l’eccesso di frazionamento che l’iper-disciplinarismo crea e fornire momenti di ricomposizione unitaria. L’iniziativa del Cidi è mossa dalla volontà di contrastare i problemi della dispersione e dell’abbandono, certamente un problema da non sottovalutare, tuttavia non mi limiterei ad un’azione contro la dispersione, perché persino per le eccellenze questa scuola non è più adeguata. Dobbiamo andare oltre l’impostazione gentiliana: l’esperienza è il prodromo della dottrina, almeno temporalmente. Dob­biamo educare l’operatore educativo scolastico all’idea che ciò che si produce con la scuola è una forma di cambiamento della società. 

Cosa possiamo dire agli insegnanti? 

Oggi, nei paesi occidentali, fino alla fine della secondaria superiore vanno tutti, o dovrebbero andare tutti, o sono in procinto di andare tutti. Questo cambia profondamente la natura della scuola soprattutto secondaria. Non possiamo disperdere la qualità culturale della nostra scuola, non possiamo annacquare la qualità per il fatto che la scuola è rivolta a tutti. Una scuola rivolta a tutti, infatti, è una necessità di giustizia sociale, ma non può essere realizzata a discapito della qualità; pertanto c’è qualcosa nell’insegnamento che dovrà essere tenuto presente. Siccome i veri artefici della qualità sono gli insegnanti, che conoscono le proprie materie, a loro va rivolto l’appello di farsi personalmente promotori della grande novità sociale di una scuola secondaria dove prima andava solo una parte dei giovani e dove adesso invece dovrebbero arrivare tutti. In seguito a questo allargamento la qualità media rischierebbe di abbassarsi; il vero problema è fare di tutto per organizzare, per offrire i servizi, per ripensare i curriculi affinché il grande progresso sociale dell’estensione dell’educazione a tutti sia accompagnato ad una diffusione della scuola di qualità. 

Pubblicata sulla rivista Fare l’insegnante, giugno 2019
Trascrizione del testo a cura di Francesca Perugi.